In un mondo sempre più attento all’economia circolare e alla lotta allo spreco, una parola spicca spesso su tutte le altre come fosse la soluzione finale, unica, definitiva: riciclo. Ai bambini vengono insegnati i principi di tale pratica già dai primi anni di scuola, mentre il marketing e la comunicazione green hanno fatto di questa parola uno dei propri campioni più blasonati. Ma esiste una pratica molto meno chiacchierata eppure estremamente efficace, green e sostenibile: quella del riuso. Ne abbiamo parlato con Federico Corsinotti, Amministratore Delegato di Maider NCG.
Il core business della vostra società è profondamente legato all’economia circolare e alle pratiche di riuso. Cominciamo dalle basi: chi siete e di cosa vi occupate?
Maider NCG fa parte di Maider Holding, società nata nel 1990 all’interno del settore dell’industrial packaging e del ricondizionamento degli imballaggi industriali, che negli anni si è articolata in diversi rami di investimento. Il settore “storico” è quello che viene portato avanti ancora oggi tramite la nostra società.
Nel 2011 diventiamo una multinazionale grazie alla joint venture con l’americana MAUSER Packaging Solutions mentre, rispettivamente nel 2020 e nel 2021, acquistiamo quelle che oggi sono le nostre due controllate, Global Tank Srl di Magnago (MI) ed Euroveneta Fusti di Mira, in provincia di Venezia. Insieme a queste ultime, il gruppo industriale Maider NCG si occupa del ricondizionamento di imballaggi industriali per il successivo riutilizzo.
Ritiriamo gli imballaggi usati (fusto da 120 l, fusto da 220 l, cisternette IBC da 300, 600 e 1000 l), che in base alla normativa italiana sono rifiuti, e li rimettiamo a nuovo. Il processo di ricondizionamento include, tra le altre, le pratiche di lavaggio e l’effettuazione di test di pressione. A seguire li ri-immettiamo sul mercato con una qualità che a livello tecnico è pari a quella dei prodotti nuovi. Ciò comporta ovviamente importanti risparmi in termini di CO2 emessa e di quantitativi di rifiuti mandati a smaltimento.
Se consideriamo la cisternetta, essa è composta da più parti (l’otre, ovvero la parte interna in plastica, il pallet che serve per la movimentazione e lo stoccaggio, e infine la gabbia esterna di metallo) e le attività di recupero sono quindi più semplici, con un tasso calcolato superiore al 99%, perché se anche uno degli elementi che la compongono è danneggiato si possono mandare a riuso gli altri componenti. Il fusto, invece, può essere recuperato solo nella sua totalità.
Il processo di recupero totale della cisternetta può non essere possibile per tre motivi:
- perché l’imballaggio è danneggiato strutturalmente, quindi ne andiamo a recuperare solo alcune parti;
- perché ha contenuto un prodotto che per la normativa non è lavabile;
- perché tecnicamente non siamo in grado di effettuare il processo di lavaggio.
In questi casi l’otre in plastica viene estratta e sostituita con una nuova.
Le parti in plastica che non possiamo riutilizzare vengono quindi mandate a riciclo: le trituriamo all’interno dei nostri impianti e le affidiamo a un’altra società del gruppo, MAUSER, che le trasforma in PCR per produrre nuovi imballaggi in plastica. Per quel che riguarda il ferro e il legno, invece, ci affidiamo a soggetti terzi a cui chiediamo stringenti certificazioni sull’effettivo riciclo del prodotto.
Chi è il vostro “cliente tipo”?
I settori principali che riforniamo sono la chimica industriale, la petrolchimica e l’alimentare. A ottobre 2023 siamo stati i primi in Italia (e secondi in Europa) ad ottenere la certificazione ISO 22000 per la rigenerazione e cessione di cisternette alimentari.
Quante attività come la vostra esistono in Italia attive nel settore del ricondizionamento degli imballaggi industriali?
La FIRI (Federazione Italiana Rigeneratori Imballaggi), di cui siamo tra i soci e i fondatori, coinvolge ventisette imprese; è un mercato di nicchia, una tipologia di business che nasce in ambito familiare, per cui la a maggior parte delle società aderenti sono a conduzione prettamente familiare. La nascita del settore è molto interessante: risale al secondo dopoguerra, quando alcune famiglie cominciano a lavare e rivedere i fusti abbandonati dai soldati americani che erano stati un tempo pieni di benzina, cibo o altro. Noi siamo tra le realtà italiane maggiormente strutturate, con una ottima quota di mercato. Si tratta di un settore soggetto a una dura regolamentazione, come del resto tutto il mondo dei rifiuti.
Quali sono le evoluzioni, le attività che prevedete di implementare nei prossimi anni o che già avete iniziato a portare avanti?
La normativa vigente obbliga sempre più i grossi gruppi multinazionali che operano nella chimica e nell’alimentare ad acquistare packaging riutilizzato e riutilizzabile, e questi ultimi pretendono ovviamente standard qualitativi di alto livello. Sicuramente, quindi, prevediamo investimenti per i controlli sulla qualità e per l’ottenimento di certificazioni da poter poi rilasciare ai nostri clienti.
Andremo inoltre a investire nel benessere dei dipendenti e nell’ottenimento di certificazioni ESG, che hanno un proprio impatto anche rispetto al rapporto con il cliente.
In ultimo, vorremmo sempre più avvicinarci fisicamente ai clienti per diminuire l’impatto che abbiamo sull’ambiente in termini di emissioni di CO2, per cui siamo sempre aperti a valutare investimenti in società e siti produttivi collocati in prossimità dei clienti.
Nella vostra esperienza ravvisate una sempre maggior attenzione da parte anche delle Piccole e Medie Imprese verso tematiche di sostenibilità? C’è stata negli anni un’evoluzione in tal senso?
Fortunatamente sì. In certi casi questa attenzione è obbligata, ma negli ultimi anni si è sempre più sviluppata anche una coscienza etica, un sentimento di responsabilità. Mentre prima l’obiettivo che spingeva gli imprenditori a comprare dal ricondizionatore era il prezzo più vantaggioso, oggi si è imposta la consapevolezza che la sostenibilità ha un costo, per cui i prezzi tendono ad allinearsi. In secondo luogo, viene sempre più riconosciuto e valorizzato quello che è a tutti gli effetti un servizio circolare, perché attraverso la nostra attività non solo vendiamo l’imballo, ma lo recuperiamo per reimmetterlo ancora una volta sul mercato, scongiurando il rischio che venga smaltito in maniera non conforme alla normativa.
Un elemento che ha dato una grossa spinta è stata, purtroppo, l’esperienza del Covid. Durante la pandemia, infatti, l’industria farmaceutica produttrice di disinfettanti ha fatto grande uso di imballaggi ricondizionati: per evitare di ritrovarsi senza imballaggi ha comprato anche il ricondizionato e si è resa conto che a livello tecnico non esiste differenza rispetto al nuovo.
Tornando alla coscienza personale, anche del piccolo imprenditore, sicuramente è sempre più rilevante. Si tratta di un percorso: ancora non per tutti la sostenibilità ambientale è una priorità, ma la rotta ormai è quella e difficilmente cambierà.
Sappiamo che l’Italia è una potenza per quanto riguarda il settore del riciclo; qual è la posizione del nostro Paese nell’ambito invece del ricondizionamento?
Lato riciclo, l’Italia è caratterizzata da un’industria molto ben sviluppata e altrettanto ben comunicata. Sul ricondizionamento, invece, ad oggi non c’è ancora stata quella spinta di marketing, per cui il settore è passato un po’ sottotraccia. I dati e le statistiche pubblicati da CORPELA collocano i numeri relativi al riutilizzo sotto al macro-termine “riciclo”, utilizzato impropriamente come una sorta di “parola ombrello” in grado di comprendere tutte e due le casistiche. A mio parere, dunque, i numeri nel settore del riuso ci sono e sono considerevoli, ma vengono annegati nel contesto del riciclo.
Inoltre, il nostro mercato – pur essendo di nicchia – ha standard qualitativi elevatissimi, molto più alti che in altri Paesi dell’Unione.
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