di Alessio Cini, co-fondatore e managing partner DIKTON
Per chi, come me, per mestiere ha la possibilità di fungere da raccordo tra le persone all’interno dei contesti lavorativi, credo sia doveroso essere in costante contatto e confronto con i vari stakeholder che partecipano alla creazione di valore, sia in termini aziendali che in una visione più ampia e collegata al contesto in cui si opera. Perché, così facendo, si colgono spunti interessanti e opportunità di crescita. Questo articolo nasce da una chiacchierata avuta ad inizio ottobre con un noto imprenditore, proprietario di una media ma molto conosciuta azienda italiana operante nella produzione di beni industriali. In alcune ore di viaggio abbiamo provato a rispondere ad una domanda: quali sono i principali problemi che oggi affliggono le aziende sul fronte della scelta e organizzazione delle persone?
La situazione italiana
In un Paese come il nostro, nel quale oltre il 50% delle imprese è a conduzione familiare (fonte AIDAF), dobbiamo tenere conto del tema della cultura d’impresa e di come essa sia frammentata ed eterogenea a causa dell’altissimo numero di aziende presenti (nel 2021 oltre 65.000 quelle con un fatturato superiore a cinque milioni di euro, fonte MEF), il gran numero di settori in cui si articola la nostra economia e le differenze normative e territoriali. Questo scenario rappresenta una complicazione, ad esempio, per le aziende multinazionali che tendono e voler semplificare e standardizzare i modelli gestionali delle loro filiali nel mondo.
Così, un buon numero di imprese italiane deve confrontarsi con temi che non ritiene sempre primari o strategici per sostenere la propria crescita, deve far fronte a più difficoltà burocratiche rispetto al resto del mondo occidentale e a dinamiche gestionali e modelli di cultura manageriale ritenuti spesso antiquati a livello internazionale. Evidente è però la nostra capacità nel continuare a realizzare prodotti di eccellenza in tutti i settori: dall’automazione applicata ai vari comparti industriali all’automotive ed affini, dal design al lusso, dall’aerospaziale all’arrendamento, al mondo del cibo, del vino…
Per questi motivi, corporation e fondi di investimento esteri hanno intensificato negli ultimi anni le attività di “shopping” delle nostre aziende. Perché siamo bravi, spesso i più bravi in tanti ambiti tecnici e tecnologici, ma le nostre aziende peccano – secondo alcuni osservatori – sul fronte della capacità organizzativa.
I punti di attenzione
Quali sono i punti su cui si può lavorare per rendere un’azienda più efficace anche sul piano organizzativo? Partiamo dai modelli governance, spesso troppo autoreferenziali: tra le imprese familiari nel 2020 quasi due terzi avevano board composti solo da persone collegate alla famiglia. Così facendo molte aziende finiscono per non rinnovarsi adeguatamente sul piano manageriale, rischiando di perdere figure strategiche a causa dell’incapacità di disegnare loro un percorso adeguato a quello che il mercato esterno invece offre.
Nei contesti multinazionali, invece, dinamiche di gestione poco virtuosa possono derivare dall’utilizzo troppo netto dei vecchi modelli organizzativi “command and control”, da una mancanza di visione comune, dal non utilizzo di logiche di formazione continua o da modelli organizzativi poco chiari e non condivisi in modo coerente.
Queste distorsioni provocano diversi effetti: turnover sopra la media, incapacità di avere un’adeguata fidelizzazione in alcuni dipartimenti, episodi di burnout a più livelli, tassi di assenteismo alti, abbandono improvviso da parte di persone considerate fondanti.
Alcune strategie per migliorare
Alcune strategie attuabili come anticorpi di queste pratiche danneggianti possono essere:
- Non solo avere chiaro il modello di business che si vuole costruire e gli obiettivi da raggiungere anche in termini delle singole persone e team, ma anche comunicarlo bene, internamente ed esternamente.
- Dare i giusti nomi ai ruoli delle persone che lavorano in azienda: nell’era di LinkedIn, il mondo è pieno di Manager e Director che lo sono solo sulla carta.
- Mappare le reali competenze delle persone a tutti i livelli, gerarchici e operativi.
- Formare un management più consapevole, reattivo e capace di avere confronti più efficaci a più livelli; un management conscio di cosa accade anche al di fuori delle mura aziendali e che si sforzi di uscire dalla (il)logica opzione dell’“abbiamo sempre fatto così”.
- Creare un’adeguata cultura del feedback e della delega, uscendo dai tanti cliché che inquinano gli ambienti professionali.
- Rendere più efficaci le attività di formazione e selezione del personale, in particolare per quanto riguarda le persone considerate strategiche, possibilmente misurarne i KPI e le evidenze raccontate dai dati.
Costruire, insomma, il proprio modello aziendale tenendo conto anche delle dinamiche esterne all’azienda, effettuando una scelta consapevole su modello di business, cultura e organizzazione che si vuole realizzare. Tenere bene a mente perché e come comunicarlo in modo adeguato, possibilmente includendo ma non limitandosi ad una visione di breve periodo. Se si vuole parlare realmente di sostenibilità, infatti, non si può trascendere dall’efficacia e dalla durabilità dei progetti nel tempo, così come non ci si può far travolgere da mode o tendenze del momento.
Una soluzione alla crisi occupazionale
Per fare tutto questo è forse necessario iniziare a pensare all’ambiente lavorativo non come un motore fatto di meccanismi e ingranaggi, ma come un corpo vivo, inserito e collegato al contesto in cui opera e in cui in modo sinergico si sviluppano conoscenze e valori. Questo anche a fronte dei sempre più evidenti il problemi di clash generazionale (per cui l’Italia ha il pessimo primato in Europa di avere una percentuale di NEET – Neither in Employement, Education or Training – al 23%) e di mancanza di personale in senso assoluto (in inglese people shortage), soprattutto in ruoli STEM e operativi, che al momento sta provocando una seria perdita di competitività nelle aziende italiane e che tra pochi anni diventerà drammatica.
Se riuscissimo a progettare ambienti lavorativi sempre più solidi, dinamici e in grado di tornare a dare una prospettiva alle persone che ci lavorano, saremmo sulla buona strada per trovare la soluzione alla grande crisi occupazionale in atto. Al contrario, ignorare queste dinamiche all’interno delle nostre aziende può voler dire che, forse, si è parte del problema.
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