di Daniele Barbone, editore
ImprontaZero presente ai lavori della COP27 di Sharm
La presidenza egiziana aveva promesso una “COP di attuazione”, un’edizione che vedesse gli impegni assunti nel passato lasciare il posto all’azione, per affrontare il cambiamento climatico e prepararsi ai suoi effetti. Si sarebbero allora dovuti ottenere risultati sia sul fronte della mitigazione – e quindi assumere impegni per ridurre le emissioni climalteranti – che dell’adattamento. In realtà, come vedremo, i risultati non sono stati quelli attesi, ma hanno riguardato soluzioni rivolte più agli impatti del cambiamento climatico rispetto alle sue cause.
Il Paese ospitante ha inoltre deciso di tenere sei tavole rotonde “ad alto livello” su argomenti relativi alle principali sfide globali: sicurezza alimentare e agricoltura, sicurezza idrica, finanza, sicurezza energetica e futuro, comunità vulnerabili, necessità di una “transizione giusta” lontano dai combustibili fossili.
Da segnalare che per la prima volta il tema “sicurezza alimentare e agricoltura” è entrato in modo così rilevante nei lavori e al termine della COP è stata avviata la costituzione di un programma denominato FAST, da realizzarsi in collaborazione con la FAO e volto a intervenire economicamente, con tecnologia e knowhow. Le azioni saranno tese a costruire la resilienza nei sistemi agroalimentari, garantendo il loro adattamento ai cambiamenti climatici. Allo stesso tempo, i sistemi agricoli sostenibili potranno offrire molte opportunità per ridurre le emissioni di gas serra.
L’attuazione sarà poi da verificarsi in vista della COP28. Sul fronte mitigazione, ossia della riduzione delle emissioni, il documento finale, nominato “Sharm el-Sheikh Implementation Plan”, contiene solo l’impegno a mantenere vivo l’obiettivo di contrastare l’incremento della temperatura stabilito a Parigi, ma non si spinge oltre circa la preoccupazione rispetto al ritardo che si sta cumulando nel perseguirlo. La COP27 riconosce infatti che per mantenere l’obiettivo di 1,5 gradi entro il 2030 sarà necessaria una riduzione delle emissioni del quarantatré per cento rispetto al 2019; con gli attuali impegni di decarbonizzazione, tuttavia, il taglio di emissioni sarebbe solo dello 0,3 per cento. Per questo gli stati che non hanno ancora aggiornato i loro obiettivi di decarbonizzazione (NDC) sono stati invitati a farlo entro il 2023. La stima prodotta durante i lavori segnala che “dovranno essere investiti da quattro a sei trilioni di dollari l’anno in energie rinnovabili fino al 2030, compresi gli investimenti in tecnologia e infrastrutture, per consentirci di raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2050”.
Più adattamento ai danni che decisioni rispetto alle cause
Secondo molti osservatori il fatto stesso che questa edizione si sia svolta nel continente africano ha fatto sì che l’attenzione si spostasse dal taglio alle emissioni e dai relativi investimenti verso i temi relativi agli effetti negativi sui paesi più vulnerabili (loss and damage) e alla finanza per i paesi in via di sviluppo. Su questo ha messo in guardia anche il segretario generale dell’ONU Guterres, in occasione di un’intervista per il Guardian alla vigilia dei lavori: “Dal punto di vista dei paesi in via di sviluppo i vaccini non sono stati distribuiti in modo equo. Poi, se si osserva la ripresa economica post Covid, sedicimila miliardi di dollari sono stati mobilitati in strumenti finanziari di diverso tipo, ma quei fondi sono stati mobilitati essenzialmente nel mondo sviluppato. Inoltre, mentre i paesi poveri lottano con le montagne del debito, i paesi ricchi non sono riusciti finora a mantenere la promessa fatta nel 2009 di fornire ai paesi terzi cento miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per il clima fino al 2020”. Vaccini, debito, crisi energetica causata da vicende geopolitiche occidentali, forti aumenti dei prezzi del cibo, la richiesta del mondo occidentale che invita i paesi in via di sviluppo a non usare combustibili fossili mentre continua ad espanderne l’uso al proprio interno; se si mettono insieme questi ingredienti si comprende bene perché i lavori abbiano poi preso una certa direzione. Su questo aspetto è intervenuto anche Shehbaz Sharif, primo ministro del Pakistan, paese colpito da alluvioni estreme per tutto il 2022 con quasi duemila morti, più di tredicimila chilometri di strade distrutte, due milioni di case colpite e decine di miliardi di dollari di danni accusati in pochi mesi: “Siamo diventati vittime di qualcosa con cui non abbiamo nulla a che fare; la nostra carbon footprint è meno dell’uno per cento di quella globale. Ora immaginate: dobbiamo provvedere alla sicurezza alimentare per l’uomo comune spendendo miliardi di dollari e dobbiamo spendere altri miliardi di dollari per proteggere le persone colpite dalle inondazioni e da ulteriori miserie e difficoltà. Come diavolo vi aspettate che possiamo intraprendere questo gigantesco sforzo da soli?
Il Loss and Damage
L’esito della COP27 è stato quello di avviare il percorso per il finanziamento del “Loss and Demage”,
che dovrebbe coprire specificamente i danni subiti dai paesi che non possono evitarli o adattarvisi.
Un rapporto presentato durante i lavori da cinquantacinque paesi vulnerabili ha stimato che le loro perdite legate al clima, negli ultimi due decenni, ammontino a 525 miliardi di dollari. Quello che è certo è che l’Europa si è battuta affinché la Cina non fosse inclusa tra i beneficiari e venisse indicata invece come soggetto tenuto a contribuire al fondo. Tuttavia non c’è ancora accordo sui contenuti, in quanto il piano di finanziamento potrebbe comprendere interventi su infrastrutture e proprietà danneggiate, nonché aspetti più complessi come ecosistemi naturali o beni culturali. Il termine L&D riguarderebbe i potenziali impatti negativi che si materializzano in paesi in via di sviluppo a causa di eventi estremi, ma potrebbe anche riferirsi ai cosiddetti eventi “a lenta insorgenza” (slow onset events). Si è previsto di tornare sul tema durante la COP28 per dare concreta attuazione al principio. Sempre rispetto alla finanza per il clima, il documento finale “invita gli azionisti delle banche multilaterali di sviluppo e delle istituzioni finanziarie internazionali a riformare le pratiche e le priorità delle banche di sviluppo per mobilitare finanziamenti per
il clima. Incoraggia le banche di sviluppo a definire una nuova visione e modello operativo allo scopo di affrontare adeguatamente l’emergenza climatica globale, compreso l’utilizzo di una gamma completa di strumenti, dalle sovvenzioni alle garanzie a strumenti diversi dal debito per aumentare sostanzialmente i finanziamenti per il clima”.
Altre risoluzioni e quanto si muove dietro le quinte
Tra le decisioni concrete vi è quella di garantire a tutti gli abitanti della Terra entro i prossimi
cinque anni la copertura universale dei sistemi di allerta precoce contro le condizioni meteorologiche estreme e i cambiamenti climatici. Anche questa è una decisione che rientra nell’adattamento
rispetto ai fenomeni. Sempre rispetto alle decisioni prese, va segnalato che la giornata relativa al tema acqua ha visto la conferma circa l’avvio di lavori specifici sulla connessione tra clima e acqua, e in particolare si è confermata la sessione speciale di lavori che si svolgerà a New York presso le Nazioni Unite a fine marzo 2023. Fuori dai lavori ufficiali, poi, la comunità economica ed imprenditoriale ha visto molti movimenti. Da un lato la presenza significativa di rappresentanti del settore “Oil & Gas”, che hanno svolto il classico ruolo di lobbysti organizzando anche iniziative collaterali ed attività. Eventi dal titolo
ossimorico (“il ruolo del metano per un mondo meno dipendente dai combustibili fossili”) organizzati da paesi dell’area del Golfo si sono distinti per l’incoerenza, più che per le possibili soluzioni proposte. Dall’altro lato, però, vanno segnalate positivamente le strategie della comunità finanziaria. La richiesta di certezze sulle allocazioni degli investimenti con conseguente contrasto al greenwashing è un tema che inizia a vedere gli investitori più attenti, così come la scelta di taluni grandi fondi e banche per investimenti che abbiano soluzioni climatiche in linea, o ancora meglio, obiettivi previsti dall’accordo di Parigi.
La comunità finanziaria alla COP
Cito tre esempi. I fondi pensione danesi, nordici e britannici, che hanno una precisa strategia per investire in soluzioni climatiche entro il 2030 con uno stanziamento di centotrenta miliardi di dollari. Questi hanno costruito una coalizione che impone agli aderenti la rendicontazione annuale per garantire che gli impegni finanziari vengano convertiti in investimenti con effettivi risultati. O ancora: è stato presentato il lavoro svolto da un’aggregazione di fondi USA, denominata Climate Positive Alliance, che punta
su imprese che abbiano obiettivi “climate positive”, ossia che non solo arrivino alla neutralità climatica ma anche oltre, garantendo azioni misurabili di impatto favorevole sul clima. Tra questi segnaliamo ETHO Capital che ha illustrato come, selezionando aziende che abbiano intrapreso programmi di climate neutral, si ottengano performance finanziarie ancora migliori delle aziende Standard Poor 500. Cito infine un’altra importante iniziativa sotto l’egida diretta delle Nazioni Unite, composta da investitori istituzionali impegnati a trasferire i propri portafogli di investimento verso emissioni nette di gas serra entro il 2050,
in linea con un aumento massimo della temperatura di un grado e mezzo. L’alleanza “Net-Zero Asset Owner Alliance” (NZAOA) è composta da 483 membri con obiettivi intermedi che includono intervalli di riduzione di CO2 per il 2025 (22/32 per cento) e per il 2030 (49/65 per cento). Tra questi figurano undici tra banche e fondi italiani, tra cui Unipol, Mediobanca, Intesa San Paolo e Unicredit.
Le comunità locali e il ruolo delle città
C’è una crescente consapevolezza internazionale che la battaglia per il clima sarà vinta o persa nelle città. Oggi le città contribuiscono al settanta per cento delle emissioni mondiali, consumano più del settantacinque per cento delle risorse naturali mondiali e si prevede che entro il 2050 due terzi della popolazione mondiale vivranno nelle città.
Come ribadito nell’ultimo rapporto dell’IPCC i governi locali e regionali hanno un ruolo crescente nell’attuazione dell’azione per il clima; tuttavia non hanno un ruolo formale nei negoziati sul clima globale e nell’attuazione dell’accordo di Parigi. Le città e le regioni di tutto il mondo stanno assumendo una leadership politica sul clima agendo sul campo anche in funzione dell’evidenza che i governi nazionali non riescono a raggiungere progressi sufficienti.
In questo senso si è visto durante quest’ultima COP che la presenza delle amministrazioni locali, le case history presentate nei vari eventi e l’attenzione degli operatori economici alla transizione net zero di migliaia di realtà locali sono un segnale interessante circa il proseguo di questa sfida aldilà delle decisioni, poche, che vengono prese dai decisori nazionali ed internazionali.
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